Tutto ha avuto inizio di fronte alla foto di
una felice famiglia afroamericana. Tre generazioni sorridenti, ritratte nel salotto ben arredato di una casa padronale. Tutti sorridono, anzi ridono
davanti all'obiettivo che ha immortalato la loro joie de vivre. Che cazzo
avranno da ridere? penso io. I ricchi ridono sempre o, almeno, si preoccupano costantemente
di mostrarsi felici. I ricchi, inoltre, non hanno colore.
Esco di casa e decido di andare alla stazione
dei treni, a guardare i treni. Come fanno i tossici in Trainspotting. Perché?
Che cazzo ne so. Mi va e basta. Non riesco a togliermi dalla mente
quell'immagine di felicità borghese, le smorfie ilari, i denti bianchi e
scintillanti, gli occhi strizzati; mentre mi sembra di sentire la risata di
nonno Terrence echeggiare nelle strade
deserte di questa pigrissima domenica mattina. Ci sono gli alberi, alti, ai
margini del lungo viale che mi porterà in stazione.
È autunno: foglie, foglie gialle marciscono sui
marciapiedi.
Alla stazione dei treni ci sono i treni. Alcuni
passano, altri stanno semplicemente là, stufi di andare su e giù per il Paese,
arrugginiscono e si riposano, saltuariamente molestati da qualche writer
impertinente. Alla stazione dei treni c'è anche, ovviamente, un Despar. Lì vendono
le birre.
“Ehi, amico, ce l'hai un paio di monete? Così
evito di rubarla…”
È un tossico, un alcolizzato, quello che voi
chiamate barbone. Poco più vecchio di me. Lungo, lercio cappotto; lunghi, lerci
capelli. Barba corta, ma lercia.
Occhi scuri. Tipo due buchi neri - attraenti, a
modo loro.
“Per la birra? Perché se è per la birra, ti do
tutti i soldi che vuoi”
“Grazie. Io mi chiamo Luca”
“Piacere, AlligatoreNinja”
“Va' in mona”
“Come, scusa?”
“Si dice così, da queste parti, non sai cosa
vuol dire?”
“Sì, certo che lo so…”
“È un augurio”
Risate. Si chiama Luca e ha praticamente la mia
età. Però ha le mani gonfie e nere. Non ho potuto fare a meno di rabbrividire,
quando gliene ho stretta una. E non ho potuto fare a meno di vergognarmi come
un cane. Come un cane stronzo e di razza e con dei padroni borghesi che si
prendono cura di lui, lo lavano e gli tagliano il pelo e lo fanno sfilare a
quei terribili concorsi di bellezza per cani che si vedono nei film americani e
lui non può non è colpa sua, è pur sempre un cane. La colpa è certamente dei
padroni. Sempre.
(Lo stesso discorso vale per Luca e le sue mani
sporche.)
“La birra, comunque, è per la mia ragazza. Sta
in ospedale, adesso, così mi sono chiesto: cosa porto a una che sta a letto in
ospedale? Una birra, ovvio. Per le cicche poi si arrangia lei”
“Giusto”
“Da dove vieni, AlligatoreNinja?”
“Vice City”
Luca prende un cartone di Tavernello e nasconde
la birra in una tasca interna del cappotto, con gran disinvoltura, senza
smettere di parlare.
“E cosa ci fai qua?”
“Ci studio. Matematica”
“Matematica? Assurdo, assurdo... E cosa ne
pensi di Bertrand Russel? Cosa ne pensi, eh? Bertrand Russel mi ha fatto
impazzire, mi ha fatto diventare assolutamente pazzo, sono andato ai matti,
davvero, per colpa di quel genio di Russel”
Paghiamo. Usciamo dal Despar, rientrando in
stazione, dove sciami di uomini e donne e studenti universitari e immigrati e
ragazzini limonanti e vecchi bavosi e sbirri e altri uomini e altre donne
salgono e scendono dai treni che arrivano in stazione, si fermano, riposano
cinque minuti e poi, lentamente, ripartono.
“Io credo che se uno ti fa impazzire, se uno è
capace di farti esplodere il cervello semplicemente usando le giuste
combinazioni di parole, be’, allora quello è un tizio a cui dovresti essere
riconoscente, perché ha fatto qualcosa per te, non so se mi spiego”
“Forse hai ragione. Il lupo, comunque, perde il
pelo, ma non il vizio… La birra l’ho rubata lo stesso, alla fine. Del resto
questi soldi mi serviranno per l’autobus, mica ci posso andare a piedi, fino
all’ospedale”
“Hai fatto bene. Il signor Despar non se ne
accorgerà neanche, di questo euro in meno”
Luca ci pensa un attimo, sospeso
nell'immobilità. Poi conclude: “Probabilmente no”.
Alla
stazione dei treni ci sono i treni. Seduto al primo binario, sorseggio la mia
Peroni nazionale guardando un po’ il vuoto e un po’ la ragazza bionda a ore 14.
Sta leggendo Davvero, il più bel fumetto italiano attualmente in circolazione.
Gira le pagine, mentre un sorriso le sfiora le labbra.
Mi
alzo in piedi – grosso giramento di testa – e barcollando mi avvio verso il sottopassaggio
che porta agli altri binari. Realizzo che ho in mano la Peroni nazionale numero
cinque e che comincio ad essere un po’ sbronzo. Ciononostante approccio la
bionda.
“Quello
è il secondo numero di Davvero?”
Alza
la testa dalle pagine in bianco e nero e, dopo un attimo di spaesamento, mette
a fuoco la mia faccia di cazzo e chiede, gentilmente ma non senza un velo
d’ironia, se ci conosciamo. Il suo sorriso è perfetto. I suoi occhi,
verdissimi. Cerco di articolare una risposta ma non posso farcela; sprofondo in
quel mare verde, verde…
Il
prato si estende dal limite meridionale del boschetto fino al ruscello che
scende da Colle Alto e Lei è distesa su un telo rosso e la sua anima si
specchia nel cielo (per descrivere il quale ho cercato a lungo e invano
l'aggettivo adeguato). Si tratta, in effetti, di un cielo improbabile. Un cielo
ipotetico dell'irrealtà.
Una
splendida giornata, in ogni caso: sole, lieve brezza lacustre, uccellini che
cinguettano eccetera.
Lei
guarda il cielo e il cielo le restituisce lo sguardo.