domenica 13 gennaio 2013

Inverno fratto due (sogno di)

Tutto ha avuto inizio di fronte alla foto di una felice famiglia afroamericana. Tre generazioni sorridenti, ritratte nel salotto ben arredato di una casa padronale. Tutti sorridono, anzi ridono davanti all'obiettivo che ha immortalato la loro joie de vivre. Che cazzo avranno da ridere? penso io. I ricchi ridono sempre o, almeno, si preoccupano costantemente di mostrarsi felici. I ricchi, inoltre, non hanno colore.

Esco di casa e decido di andare alla stazione dei treni, a guardare i treni. Come fanno i tossici in Trainspotting. Perché? Che cazzo ne so. Mi va e basta. Non riesco a togliermi dalla mente quell'immagine di felicità borghese, le smorfie ilari, i denti bianchi e scintillanti, gli occhi strizzati; mentre mi sembra di sentire la risata di nonno Terrence  echeggiare nelle strade deserte di questa pigrissima domenica mattina. Ci sono gli alberi, alti, ai margini del lungo viale che mi porterà in stazione.
È autunno: foglie, foglie gialle marciscono sui marciapiedi.

Alla stazione dei treni ci sono i treni. Alcuni passano, altri stanno semplicemente là, stufi di andare su e giù per il Paese, arrugginiscono e si riposano, saltuariamente molestati da qualche writer impertinente. Alla stazione dei treni c'è anche, ovviamente, un Despar. Lì vendono le birre.

“Ehi, amico, ce l'hai un paio di monete? Così evito di rubarla…”
È un tossico, un alcolizzato, quello che voi chiamate barbone. Poco più vecchio di me. Lungo, lercio cappotto; lunghi, lerci capelli. Barba corta, ma lercia.
Occhi scuri. Tipo due buchi neri - attraenti, a modo loro.
“Per la birra? Perché se è per la birra, ti do tutti i soldi che vuoi”
“Grazie. Io mi chiamo Luca”
“Piacere, AlligatoreNinja”
“Va' in mona”
“Come, scusa?”
“Si dice così, da queste parti, non sai cosa vuol dire?”
“Sì, certo che lo so…”
“È un augurio”
Risate. Si chiama Luca e ha praticamente la mia età. Però ha le mani gonfie e nere. Non ho potuto fare a meno di rabbrividire, quando gliene ho stretta una. E non ho potuto fare a meno di vergognarmi come un cane. Come un cane stronzo e di razza e con dei padroni borghesi che si prendono cura di lui, lo lavano e gli tagliano il pelo e lo fanno sfilare a quei terribili concorsi di bellezza per cani che si vedono nei film americani e lui non può non è colpa sua, è pur sempre un cane. La colpa è certamente dei padroni. Sempre.
(Lo stesso discorso vale per Luca e le sue mani sporche.)
“La birra, comunque, è per la mia ragazza. Sta in ospedale, adesso, così mi sono chiesto: cosa porto a una che sta a letto in ospedale? Una birra, ovvio. Per le cicche poi si arrangia lei”
“Giusto”
“Da dove vieni, AlligatoreNinja?”
“Vice City”
Luca prende un cartone di Tavernello e nasconde la birra in una tasca interna del cappotto, con gran disinvoltura, senza smettere di parlare.
“E cosa ci fai qua?”
“Ci studio. Matematica”
“Matematica? Assurdo, assurdo... E cosa ne pensi di Bertrand Russel? Cosa ne pensi, eh? Bertrand Russel mi ha fatto impazzire, mi ha fatto diventare assolutamente pazzo, sono andato ai matti, davvero, per colpa di quel genio di Russel”
Paghiamo. Usciamo dal Despar, rientrando in stazione, dove sciami di uomini e donne e studenti universitari e immigrati e ragazzini limonanti e vecchi bavosi e sbirri e altri uomini e altre donne salgono e scendono dai treni che arrivano in stazione, si fermano, riposano cinque minuti e poi, lentamente, ripartono.
“Io credo che se uno ti fa impazzire, se uno è capace di farti esplodere il cervello semplicemente usando le giuste combinazioni di parole, be’, allora quello è un tizio a cui dovresti essere riconoscente, perché ha fatto qualcosa per te, non so se mi spiego”
“Forse hai ragione. Il lupo, comunque, perde il pelo, ma non il vizio… La birra l’ho rubata lo stesso, alla fine. Del resto questi soldi mi serviranno per l’autobus, mica ci posso andare a piedi, fino all’ospedale”
“Hai fatto bene. Il signor Despar non se ne accorgerà neanche, di questo euro in meno”
Luca ci pensa un attimo, sospeso nell'immobilità. Poi conclude: “Probabilmente no”.

Alla stazione dei treni ci sono i treni. Seduto al primo binario, sorseggio la mia Peroni nazionale guardando un po’ il vuoto e un po’ la ragazza bionda a ore 14. Sta leggendo Davvero, il più bel fumetto italiano attualmente in circolazione. Gira le pagine, mentre un sorriso le sfiora le labbra.
Mi alzo in piedi – grosso giramento di testa – e barcollando mi avvio verso il sottopassaggio che porta agli altri binari. Realizzo che ho in mano la Peroni nazionale numero cinque e che comincio ad essere un po’ sbronzo. Ciononostante approccio la bionda.
“Quello è il secondo numero di Davvero?”
Alza la testa dalle pagine in bianco e nero e, dopo un attimo di spaesamento, mette a fuoco la mia faccia di cazzo e chiede, gentilmente ma non senza un velo d’ironia, se ci conosciamo. Il suo sorriso è perfetto. I suoi occhi, verdissimi. Cerco di articolare una risposta ma non posso farcela; sprofondo in quel mare verde, verde…

Il prato si estende dal limite meridionale del boschetto fino al ruscello che scende da Colle Alto e Lei è distesa su un telo rosso e la sua anima si specchia nel cielo (per descrivere il quale ho cercato a lungo e invano l'aggettivo adeguato). Si tratta, in effetti, di un cielo improbabile. Un cielo ipotetico dell'irrealtà.
Una splendida giornata, in ogni caso: sole, lieve brezza lacustre, uccellini che cinguettano eccetera.

Lei guarda il cielo e il cielo le restituisce lo sguardo.

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